domenica 30 marzo 2014

Un tema pittorico ricorrente - 5

 Come avevo accennato nel penultimo post precedente a questo, parlerò ancora dell'Apocalisse di San Giovanni ma da un punto di vista pittorico.
La densità e la varietà di immagini evocative contenute in questo libro biblico sono tali da poter suscitare ispirazioni in qualunque artista, indipendentemente dalla sua fede religiosa.
Però l'aspetto fideistico è stato indubbiamente prioritario per secoli, e le opere pittoriche tratte dalle visioni apocalittiche di San Giovanni si trovano prevalentemente in luoghi sacri o in antichi breviari (l'immagine in alto a sinistra, raffigurante i Quattro Cavalieri, è appunto una miniatura tratta dal codice Ottheinrich).
Il tema del Giudizio Finale in particolare, centrale ai fini della concezione cristiana dell'espiazione delle proprie colpe dopo la morte del corpo, è presente in moltissime chiese, soprattutto quelle più antiche. Si trattava di un vero e proprio monito ai fedeli: non siate peccatori, o finirete nelle fauci del demonio.
Alcuni dei cicli di affreschi in cui viene rappresentato - con estrema aderenza alle descrizioni di Giovanni - il momento del giudizio delle anime di fronte a Dio sono grandi capolavori dell'arte.
Io ho potuto ammirare di persona quello di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova


e quello di Luca Signorelli nel Duomo di Orvieto

e molti altri tra cui quello celeberrimo di Michelangelo che tutti hanno visto, se non di persona, almeno in televisione o su qualche libro scolastico.
Le visioni apocalittiche però non si limitano al momento conclusivo: partono da eventi (o simboli) precedenti, ed elencano una serie di figure e personaggi che hanno ispirato gli artisti anche singolarmente, senza essere inseriti in grandi cicli di affreschi. Gli spunti sono davvero numerosi: i quattro cavalieri, la bestia il cui nome è il numero 666, la grande meretrice, i sette sigilli, la battaglia finale, la Gerusalemme celeste...
Anche scegliendo uno solo di questi temi ci troveremmo di fronte a migliaia di opere note, decine di migliaia se si includono quelle dei tanti artisti dilettanti (ma non necessariamente poco talentuosi) che hanno fornito la loro personale interpretazione delle visioni di San Giovanni.
I Quattro Cavalieri - conquista, guerra, fame e morte - stimolano in modo particolare l'immaginario collettivo perché evocano catastrofi che purtroppo funestano continuamente l'umanità. Anche un ateo o un credente di un'altra religione può scorgervi dei potenti significati allegorici.
Ad esempio nel quadro del pittore anglo-americano Benjamin West (1738-1820) i cavalieri - quantunque dipinti con attributi aderenti all'iconografia biblica - non sono al centro della tela: lo spazio principale è occupato dalle scene di morte e dolore che essi causano. Hanno anch'esse attinenza con le visioni di San Giovanni, tuttavia l'impressione è che l'autore voglia rappresentare la quotidiana follia della guerra anziché oscure visioni teologiche relative a un imprecisato futuro.


Allo stesso modo, il pittore metafisico Carlo Carrà (1881-1966) modifica i cavalieri secondo la propria ispirazione artistica: ne rappresenta tre anziché quattro, e due li trasforma in donne. Il cavallo della morte è rappresentato con un cromatismo rosso acceso che contrasta ugualmente con la descrizione biblica ("Guardai e vidi un cavallo giallastro [verdastro]; e colui che lo cavalcava si chiamava Morte"). Non c'è la volontà di raffigurare un testo sacro, ma solo di coglierne la propria, personalissima suggestione.


Tantissimi grafici, disegnatori, creativi e dilettanti con temperamento artistico, hanno preso ispirazione dai quattro cavalieri. Sono stati reinventati con caratteristiche da fumetto fantasy, cyberpunk, persino steampunk come ci dimostra K. Scott Bradbury
 
Fra le tante altre interpretazioni di autori contemporanei impossibile non citare il bellissimo libro illustrato di Paolo Barbieri in cui l'autore racconta con colori violenti e grafica raffinata tutte le visioni apocalittiche. Questa è la sua versione del secondo cavaliere ("Allora uscì un altro cavallo, rosso fuoco. A colui che lo cavalcava fu dato potere di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada"):

Una ricerca a tema su siti come tumblr o deviantart fornisce tantissimi altri esempi. Il fascino infinito di quelle antiche pagine - rivelazione religiosa, codice simbolico o estasi visionaria che siano - continuerà sicuramente a suggestionare gli artisti anche nei secoli a venire.

martedì 25 marzo 2014

Boomstick Award 2014

Non ho mai vinto un premio letterario, e neppure il superenalotto, ma almeno il Boomstick Award l'ho conseguito - ringraziando Nick e Ivano - con le seguenti motivazioni:

Nick: Perché ogni volta che scrivo un post lui è sempre il primo a commentarlo ed ogni volta lo fa con cognizione di causa. Inoltre ha creato quel meraviglioso personaggio di Writerman a cui non si può non affezionarsi.
 
Ivano: Perché i post di Ariano sono spesso originali e pieni di spontaneità. E poi c'è Writerman!
 
Rammento le regole di questo premio creato dal blogger Hell:

1 - i premiati sono 7. Non uno di più, non uno di meno. Non sono previste menzioni d’onore.

2 – i post con cui viene presentato il premio non devono contenere giustificazioni di sorta da parte del premiante riservate agli esclusi a mo’ di consolazione.

3 – i premi vanno motivati. Non occorre una tesi di laurea. È sufficiente addurre un pretesto.

A queste Hell ha aggiunto una quarta regola, ché l’anno scorso gliele hanno fatte girare: 

4 – è vietato riscrivere le regole. Dovete limitarvi a copiarle, così come io [Hell] le ho concepite.

Ed ecco i miei premiati e le mie motivazioni:

Acalia Fenders, perché ama manga e anime e li racconta in modo sublime, e mi fornisce tanti spunti utili per visioni e letture.

Ferruccio Gianola, perché è instancabile ed è una fonte perenne di idee blogghistiche con le quali ravviva il web.

Glauco Silvestri, perché è stato il mio modello ispiratore e certe cose non si dimenticano.

Clyo Parecchini, perché disegna benissimo e racconta l'Inghilterra meno conosciuta con fine humor piemontese-british.

Romina Tamerici, perché riesce a parlare di argomenti letterari e linguistici con estrema semplicità ma senza mai essere banale.  

Dama Arwen, perché ha il notevole pregio di una sincerità assoluta e priva di ipocrisie, e probabilmente mi manderà a quel paese per averla nominata :-D

Nyu, perché è piena di vita e dona buonumore, e spero con tutto il cuore che superi presto il difficile momento che sta passando.

I premiati possono a loro volta assegnare il premio ad altri 7 blogger, ma non arrogarsi la paternità del banner e del premio, quella appartiene al blog Book e Negative, che gradirebbe essere citato nell’articolo.
L’assegnazione del premio deve rispettare le 4 semplici regole sopra esposte. Qualora una di esse venga disattesa, il Boomstick Award sarà annullato d’ufficio, su questo blog, e in sostituzione, verrà assegnato il


che è fonte di disonore (e si vocifera anche sfiga) per chi lo riceve. Occhio gente ;-)

sabato 22 marzo 2014

Post apocalittico

… ma non nel senso di “successivo a un’apocalisse”. Questo è proprio un post (messaggio, articolo, chiamatelo come volete) apocalittico.
“Perché mai?” (non) mi chiederete voi.
Ma perché questo è il post n. 666 da quando ho aperto il blog. Praticamente un antipost.
Qual è il modo giusto per celebrarlo?
L’argomento è talmente vasto da sconsigliare ogni ipotesi di relegarlo in poche righe. Ho letto più volte le pagine bibliche con il racconto delle visioni di San Giovanni, e le reputo straordinariamente suggestive.
Avrei potuto corredare questo post con quadri in cui ricorrono le tematiche dell’Apocalisse biblica, ma per questo argomento produrrò un messaggio apposito nei prossimi giorni.
Avrei anche potuto esporre le principali interpretazioni teologiche del Libro dell’Apocalisse, ma sarebbe stato troppo debordante rispetto alla linea autoriale del blog.
Restando nello specifico, mi chiedo: cosa rappresenta il post n. 666 di un blog? Un traguardo? Un nuovo punto di partenza? Un messaggio uguale a tutti gli altri?
Ecco, in realtà alla fine contano solo i contenuti, non le etichette e i dati statistici.
E adesso mi domando: qualcun altro ha già raggiunto – e celebrato – il suo seicentosessantaseiesimo post?

martedì 18 marzo 2014

I dieci film della vergogna

Visto che ho già espresso la mia anti-cinefilia nel terzultimo post di questo blog, tanto vale autosputtanarmi del tutto aderendo al post virale che ho scoperto tramite Acalia Fenders, ovvero la lista dei dieci film "della vergogna". Possono essere definiti tali tutti quei film che non sono certo dei capolavori, che hanno evidenti difetti, che non potrebbero mai essere citati fra i film da salvare, eppure ti piacciono ugualmente. Non vale citare pellicole di discreta qualità, devono essere indiscutibilmente filmetti nazional-popolari o tamarrate kitsch.
Questo è il mio elenco:

10 - Qualunque film con la coppia Bud Spencer & Terence Hill
Penso che non servano troppe spiegazioni, e neppure giustificazioni: sarete sicuramente indulgenti.
... o no?

9 - Pretty in pink
Qua c'entra la nostalgia canaglia, il ricordo di quando ero adolescente e talvolta mi capitava di vedere certe commediole giovanili americane altamente sconsigliate ai maggiori di diciotto anni in cui la protagonista buona era sempre la dolce e sfigata Molly Ringwald. Ma il merito è anche della canzone degli Psychedelic Furs che da il titolo al film: è decisamente easy listening, però la ricordo con piacere per motivi personali che vanno al di là dei suoi meriti musicali.
(Per inciso: il vestito rosa che lei si confeziona da sola e che tutti ammirano, in realtà fa davvero cagare).

8 - Yattaman
Anche qui è tutta colpa della nostalgia, in questo caso addirittura dell'infanzia. Quando ero bimbo (proprio al termine dell'infanzia in realtà) ho visto tutti gli episodi della serie animata, e rivedere da adulto gli stessi personaggi interpretati da attori in carne e ossa che comunque sembrano cartoni animati...
Demenziale oltre ogni limite. Però mi è piaciuto.

7 - Tre uomini e una gamba
Aldo Giovanni e Giacomo al loro esordio cinematografico...
Siate comprensivi, suvvia ;-)

6 - 300
La madre di tutte le tamarrate. Però, onestamente, non riesco a non apprezzare il suo stile così prepotentemente fumettistico. E poi ha il vantaggio di ringiovanirmi: se mi capita di vederlo sono costretto a fare finta di essere tornato quindicenne.

5 - Scontro fra titani
Ecco un'altra tamarrata di proporzioni colossali. Elencare i difetti sarebbe facilissimo. Eppure, quelle citazioni degli effetti speciali anni '60 con gli scorpioni giganteschi... 

4 - Strange days
In realtà non penso affatto che abbia punti deboli. Secondo me è un un gran film, ma visto che sua eccellenza Moretti Nanni I, sovrano indiscusso dell'impero di Snobistica Cinefilia, lo ha nominato all'interno di una sua pellicola definendolo "una cazzata memorabile", allora lo inserisco nella lista. Ma continuo a considerarlo un gran film, altro che vergogna.

3 - Superman III
Nella serie dei film ispirati a Superman con l'indimenticabile Christopher Reeve, questo è sicuramente il più debole. Sceneggiatura da commedia buffa, peraltro esasperata dalla macchiettistica presenza di Richard Pryor. Praticamente indifendibile.
Ma mi è piaciuto lo stesso.

2 - Independence day
Parafrasando una battuta tratta da un film con Robert De Niro e Al Pacino, se qualcuno si rivolgesse a questa pellicola gli potrebbe dire: "Sei solo retorica e CGI".
Vero. Inoppugnabile. Però certe scene, tipo quella in cui Will Smith da il suo personale benvenuto all'alieno cattivo...

1 - I film più scadenti della serie su Fantozzi
All'inizio fu intuizione. I primi due in particolare sono stati rivalutati persino dalla critica. Poi però sono diventati una serie in brutta copia, una semplice rincorsa agli incassi al botteghino. E pur tuttavia, anche se probabilmente non li rivedrei una seconda volta, ammetto che quando sono stati trasmessi per la prima volta in televisione non ho resistito alla tentazione.
Ebbene sì.

giovedì 13 marzo 2014

Serissimi consigli per la scrittura - 2

Stavolta i consigli sono davvero seri, almeno nelle intenzioni. Non necessariamente validi, ma ci provo lo stesso.
Quando si racconta un evento, o una sensazione, o si descrive qualcuno, si deve scegliere quel che si vuole dire. Michelangelo sosteneva che la scultura è già nel blocco di marmo, bisogna sottrarre la parte in eccesso per far emergere la forma voluta.Allo stesso modo, nel blocco di tutto quel che si potrebbe dire sono presenti i concetti essenziali e più opportuni da levigare fino ad evidenziare quel che va detto.
Avete presente quando qualcuno vi spiega un certo fatto che gli è accaduto e dopo un po' pregate che la finisca presto perchè riempie il discorso di elementi inutili? Una storia appesantita risulta meno interessante.
Da qui nasce la dicotomia fra il detto e il non detto, che è il vero talento di alcuni narratori. Talvolta il non detto diventa persino più significativo del detto, anche se reputo opportuno usare dei termini diversi. In realtà qualcosa viene comunque raccontato, quindi il vero contrasto è piuttosto definibile come accennato / dettagliato. Un accenno può risultare più funzionale di una descrizione estremamente dettagliata. Ovviamente devono coesistere entrambe. Un testo tutto accenni e niente dettagli difficilmente riuscirà a raccontare davvero qualcosa.
Essere selettivo nella maniera corretta è la più grande difficoltà narrativa, almeno dal mio punto di vista. Sicuramente il mio blocco di parole potenziali viene scolpito sino all'essenzialità, e d'altronde trovo più densa, significativa e riuscita una narrazione con numerose omissioni non fondamentali ai fini della vicenda centrale rispetto a una carica di dettagli inutili. Per restare nella metafora del marmo michelangiolesco, per me è meglio una statua che presenti punti d'ombra a causa delle torsioni della figura umana scolpita, rispetto alla piena visibilità di un corpo di marmo statico ed eretto. Allo stesso modo, talvolta un personaggio letterario viene presentato al lettore con poche, selezionate parole che lo caratterizzano meglio di un elaborato curriculum vitae.
Prendo ad esempio l'incipit del racconto di Pirandello "Scialle nero":
Aspetta qua, - disse il Bandi al D'Andrea. - Vado a prevenirla. Se s'ostina ancora, entrerai per forza.
Miopi tutti e due, parlavano vicinissimi, in piedi, l'uno di fronte all'altro. Parevano fratelli, della stessa età, della stessa corporatura: alti, magri, rigidi, di quella rigidezza angustiosa di chi fa tutto a puntino, con meticolosità. Ed era raro il caso che, parlando così tra loro, l'uno non aggiustasse all'altro col dito il sellino delle lenti sul naso, o il nodo della cravatta sotto il mento, oppure, non trovando nulla da aggiustare, non toccasse all'altro i bottoni della giacca. Parlavano, del resto, pochissimo. E la tristezza taciturna della loro indole si mostrava chiaramente nello squallore dei volti.
Cresciuti insieme, avevano studiato ajutandosi a vicenda fino all'Università, dove poi l'uno s'era laureato in legge, l'altro in medicina. Divisi ora, durante il giorno, dalle diverse professioni, sul tramonto facevano ancora insieme quotidianamente la loro passeggiata lungo il viale all'uscita del paese.
I due personaggi principali vengono presentati in modo sommario tramite informazioni scarne, insistendo soprattutto su particolari comportamentali e sui loro piccoli gesti.
Secondo me questo breve resoconto li descrive meglio di un dettagliato elenco indicante la loro età anagrafica, il colore degli occhi e dei capelli, i motivi delle loro scelte universitarie, la provenienza geografica, etc.
D'altronde (unico guizzo poco serio che mi concedo) chiunque frequenta questo blog sa bene che ogni qual volta vengono forniti elementi descrittivi fisici, biografici e psicologici di Ariano Geta... prevale sempre il non detto ;-)

domenica 9 marzo 2014

La grande distanza

Le polemiche nate intorno al tiepido gradimento popolare de “La grande bellezza” sono ancora fresche, e se mi permetto di esprimere la mia opinione non è perché io pensi di poter aggiungere qualcosa di nuovo a quanto già detto sul film. Anzi, il mio giudizio sulla pellicola di Sorrentino è un aspetto secondario in questo post, che verte piuttosto sulla scelta di un determinato linguaggio espressivo (e il principio può valere non solo nel cinema ma anche in letteratura).
La diatriba è nota: “La grande bellezza” viene trasmesso in prima serata poco tempo dopo aver vinto il premio Oscar per il miglior film straniero. La stampa lo esalta, i critici lo lodano, e milioni di italiani che non lo hanno visto al cinema colgono l’occasione per scoprirlo. Ma i social networks mostrano in tempo reale l’impatto non proprio gradevole del film su molti spettatori: tanti esprimono noia, disorientamento, fastidio. Per contro gli ammiratori de “La grande bellezza” reagiscono infastiditi di fronte a tali commenti, e fioccano i soliti consigli: ‘andate a vedere Checco Zalone’, ‘vi meritate i Vanzina’, etc.
Parlando di me, ammetto che la mia reazione è stata di interrompere la visione del film a metà. Non ho ancora sessantacinque anni, ma ho seguito la regola di Jep Gambardella di non perdere tempo a fare ciò che non ho voglia di fare. E io non avevo voglia di vedere un film così smaccatamente elitario, costruito appositamente per essere di difficile lettura.
Precisazione importante: senza falsa modestia, credo di essere in grado di capire le metafore nascoste nelle scene ‘sopra le righe’ del film, però non apprezzo questo metodo. Ad esempio, la scena dell’artista concettuale che si esprime andandosi a schiantare nuda contro delle rovine, e poi viene ridicolizzata dal protagonista nella successiva intervista. É facile intravedere dietro di lei certi pseudo-artisti che si riempiono la bocca di parole roboanti dette esclusivamente per atteggiarsi, ma la domanda è: lo stesso identico effetto critico, non si poteva ottenere con una scena meno assurda, meno onirica?
Intendiamoci: non sto dicendo che vorrei imporre un metodo espressivo a Sorrentino (o a qualunque altro regista). È giusto che lui segua la sua ispirazione, peraltro impeccabile come dimostra la cura maniacale della fotografia, della recitazione e dei dialoghi che permeano “La grande bellezza”. Però, una scelta espressiva del genere inevitabilmente crea – parafrasando il titolo del film – una ‘grande distanza’ nei confronti del potenziale spettatore medio. Inutile negarlo: questo è un film per pochi, ed ha l’ambizione e la volontà di essere per pochi.
Non voglio fare graduatorie – pessima abitudine – ma mi permetto di citare gli ultimi tre film italiani che hanno vinto l’Oscar: “La vita è bella”, “Mediterraneo” e “Nuovo Cinema Paradiso”, ai quali aggiungo un'altra pellicola premiata però a Cannes, “Il ladro di bambini”. Tutte opere cinematografiche che hanno avuto anche un discreto successo di pubblico, e di cui però non si può certo dire che fossero banali, stupide o convenzionali. Erano film che permettevano all’italiano medio - quello che va al cinema una sola volta all’anno per vedere il cinepanettone - di scoprire qualcosa di nuovo, qualcosa che gli facesse pensare: “Impegnativo, però significativo. Lascia dentro un messaggio, un’emozione”.
Poi, per carità: anche per i film citati poteva capitare lo spettatore che dichiarava di essersi annoiato. Ma quando ci si trova ad assistere a un’opera come “La grande bellezza”, una reazione del genere diventa quasi inevitabile per molti. E questo mi fa temere che si possa venire a creare una frattura insanabile tra chi considera il cinema (o il teatro o la letteratura) quasi esclusivamente un intrattenimento, e chi lo eleva a pura espressività. Ho paura, per capirci, che lo spettatore medio possa arroccarsi sempre di più alla visione di film di bassissima levatura pensando che i capolavori esaltati dalla critica siano, fondamentalmente, incomprensibili coacervi di stranezze inadatti a chi ha un livello culturale non elevato. Anche quelli che vorrebbero ogni tanto spingersi oltre le commediole di Pieraccioni e tentare la visione di pellicole più impegnative, potrebbero arrendersi.
Ma a tenere viva questa ‘grande distanza’ non è il film di Sorrentino in se stesso, semmai l’atteggiamento snobistico dei cinefili più fanatici. I succitati insulti (perché dal loro punto di vista questo sono, nessuno si azzardi a negarlo): ‘vi meritate i Vanzina e Zalone’ mi paiono – secondo il mio modestissimo punto di vista – del tutto fuori luogo. Ammiro coloro che pur apprezzando “La grande bellezza” hanno avuto l’onestà di riconoscere che si trattava di un film estremamente arduo e non si sono minimamente permessi di disprezzare gli spettatori disorientati, comprendendo anzi la loro perplessità e cercando in alcuni casi quasi di spiegare il senso di certe scene. Non per mostrare la loro superiorità intellettuale, ma per l’effettiva consapevolezza che si trattava di un’opera concepita per essere apprezzata da pochi.
La sintesi di questo post è: non vorrei vivere in una società in cui esistono ‘caste’ culturali reciprocamente ostili.
Alcuni dei commentatori delusi da “La grande bellezza” sono stati estremamente maleducati e lo hanno ricoperto di insulti, atteggiamento da deprecare e che non ha nulla a che fare con l’onesta delusione di chi, senza offendere, ha candidamente ammesso di non capirci nulla e di trovarlo troppo criptico.
Però, allo stesso tempo, ho trovato ugualmente censurabili certi interventi di estremisti cinefili che (sia pure virtualmente) sputavano in faccia a chi si permetteva di non essere allineato all’esaltazione di massa del film. Alcuni mi sono sembrati bambini delle elementari che, entrando al bagno con altri ragazzini, li guardano con aria spavalda negli occhi e poi gli dicono: ‘Scommetti che ho il cervello più lungo del tuo?’
Non vorrei che la cinematografia nazionale finisse per ridursi a due estremi antitetici: la commediola banalissima e il supercapolavoro assoluto. Anche le vie di mezzo sono possibili, e mi auguro che continuino a esistere.

domenica 2 marzo 2014

Nomi di battesimo letterari

(Questo post è stato parzialmente ispirato da un'idea di Ferruccio).
I letterati dispongono di una grande inventiva, spesso utilizzata per coniare nomi di personaggi.
Alcuni nomi indimenticabili hanno generato addirittura aggettivi, come pantagruelico derivato da Pantagruel di François Rabelais, o amletico che prende origine dal celebre principe danese (nome storico e non creato da Shakespeare, al quale però deve il significato di "irresoluto, incerto").
Nelle allegorie medievali i personaggi simboleggiavano concetti e categorie, così poteva capitare che il signor Uomoqualunque ricevesse un invito assai sgradito dalla signora Morte e si rivolgesse al signor Amicizia e alla signora FedeinDio per chiedere chi dei due volesse accompagnarlo...
Nomi metaforicamente buffoneschi furono molto in uso anche nei secoli successivi. Nel teatro inglese gli esempi potrebbero essere tantissimi, ma mi limiterò a citare un personaggio della commedia "The roaring girl" di Thomas Middleton e Thomas Dekker: un damerino piuttosto stupido che non a caso porta il nome Greenwit (Ingegnoverde, ossia Ingegnoacerbo).
Nel romanzo filosofico di Voltaire "Candide", la vicenda inizia in Germania presso il castello del barone Thunder-ten-tronckh, cognome inventato che imita parodisticamente le sonorità aspre della lingua tedesca. Sempre nello stesso libro, un apatico nobile veneziano (citato nella colonna destra di questo blog) si chiama, significativamente, Pococurante.
Ma lasciando da parte questi guizzi di fantasia che avevano lo scopo di caratterizzare un personaggio a partire dal nome, è capitato anche che alcuni battesimi letterari abbiano a tal punto colpito l'immaginario collettivo da trasferirsi nella vita reale.
Uno degli esempi più antichi è Miranda, protagonista della commedia "La tempesta". Shakespeare coniò il nome basandosi sul latino "mirandus", ovvero "ammirabile", quindi con il già citato scopo allegorico di caratterizzare il personaggio. Col tempo è fuoriuscito dal testo letterario ed è diventato un nome di battesimo femminile, diffuso soprattutto in Italia e Spagna, e negli ultimi due secoli anche nei paesi di lingua inglese.
Totalmente privo di significati nascosti è invece Vanessa, nome di fantasia inventato da Jonathan Swift, l'autore de "I viaggi di Gulliver". Lo creò per nominare la protagonista femminile di una sua opera meno nota, il poemetto amoroso "Cadenus and Vanessa". Credo che ben pochi genitori al mondo abbiano mai avuto la tentazione di battezzare il proprio figlio maschio Cadenus, mentre tantissimi (compreso il sottoscritto ;-) hanno deciso di chiamare Vanessa la figlia femmina.
Un caso più recente è il francese Mireille, da cui deriva il nostro Mirella. Il poeta Frédéric Mistral aveva composto un poema in dialetto provenzale dedicato a una donna che veniva chiamata "Miréio" (storpiatura del nome Miriam). Successivamente decise di tradurlo in francese per permetterne la lettura anche al di fuori della Provenza, e francesizzò Miréio in Mireille. Il successo fu enorme, ispirò anche un'opera teatrale che ebbe a sua volta una grande risonanza, e nel giro di pochi anni in ogni parte della Francia ci furono neonate che vennero battezzate Mireille. In un'intervista rilasciata nel 1913 al quotidiano Le Figaro il poeta rievocò scherzosamente l'iniziale sorpresa causata da questo strano nome, rammentando che molti sacerdoti e impiegati dell'Ufficio Anagrafe rifiutavano di annotarlo sui registri parrocchiali e comunali perché lo consideravano "inusitato".
E voi, conoscete altri esempi di nomi creati da letterati e poi diventati di uso comune?