venerdì 30 marzo 2012

Una segnalazione speciale

Lo scopo di questo post è ringraziare tantissimo la blogger giapponese Titti per aver segnalato sul suo blog il mio "Romanzo sensazionale" di Hiroshi Miura. Inoltre mi ha dato parecchi consigli utili.
A tutti coloro che amano il Giappone consiglio di dare un'occhiata agli articoli di Titti sulla sua vita quotidiana a Osaka, sono sempre molto interessanti ma anche spontanei come un diario privato.

giovedì 29 marzo 2012

Un bilancio provvisorio

Nelle grandi aziende ogni trimestre si redige un bilancio.
Nel mio caso assai più modesto il bilancio riguarda la pubblicazione a puntate di un racconto quasi giallo pseudo steampunk.
Che effetto ha avuto? Scegliete l'opzione che ritenete più appropriata:

a - fa abbastanza schifo ma è tollerabile
b - lo farò leggere a qualcuno che odio
c - ha guarito il mio intestino da gravi problemi di stitichezza
d - prima di leggerlo bisogna ingerire un antiemetico

Il bilancio riguarda anche la mia presenza sul web, molto altalenante a causa di situazioni personali non proprio piacevoli, come ho già accennato in altri post. Spero di essere più presente nei prossimi giorni.

mercoledì 28 marzo 2012

Vapore 1910 - conclusione

8
“C’è una sola persona che appare particolarmente infastidita dalle tue… abitudini, ed è anche l’unica che ne conosce i dettagli. Dai, seguimi”.
Mentre lo diceva aprì la porta ed entrò nella stanza accanto dove Orlando Clapasson camminava su e giù nervosamente. Vedendo Alfredo gli domandò:
“Allora, adesso sei convinto che Guglielmo faccia bene a prendersi la colpa dell’omicidio pur di salvare la nostra famiglia da uno scandalo?”
“No. Mi spiace Orlando, ma ho deciso che, semplicemente, a pagare sarà il vero colpevole”.
Guglielmo sopraggiunse in quel momento. Si accorse subito che negli occhi di suo fratello c’era una tensione innaturale.
“L’assassino” riprese a parlare Deverò, “ha volutamente agito nel corso di una notte in cui Guglielmo era in una situazione che gli impediva di difendersi dall’accusa. Per rendere più corposi gli indizi a suo carico ha scelto come vittima un uomo con cui Guglielmo era stato pubblicamente coinvolto in una sgradevole lite poche ore prima, e come se non bastasse si è persino premurato di camuffarsi in modo da somigliargli il più possibile, calcolando altresì il modo migliore per farsi vedere da Celzani morente onde lasciare l’immagine del falso Guglielmo impressa nella sua retina, cosicché la materializzazione dell’ultima visione avrebbe aggiunto ulteriori elementi a suo carico. Mi sembra ovvio che solo una persona può aver organizzato tutto ciò con uno scopo preciso in mente…”
Il volto di Guglielmo quasi si paralizzò. Quello di suo fratello divenne cinereo.
“Mi dispiace Orlando, posso capire il tuo disagio a convivere con una situazione che ti avrà spesso messo al centro delle chiacchiere. Posso umanamente comprendere quanto sia fastidioso frequentare caffè, teatri, serate mondane, e avere la costante impressione che la gente ti sorrida alle spalle per i tuoi casi famigliari. Posso soprattutto perdonare la tua scelta della vittima sacrificale – per quanto mi riguarda l’omicidio di Celzani dovrebbe essere considerato un atto meritorio e non un crimine – però ciò non giustifica quel che stavi combinando a tuo fratello. Con lui in carcere ti saresti sentito più sereno, nevvero? Avresti guardato i tuoi pari con maggiore tranquillità, avresti potuto sospirare parole come ‘cosa ho fatto per meritare un congiunto simile’ e nessuno avrebbe riso, perché l’altra situazione si prestava a chiacchiere, mentre una detenzione per omicidio, beh, no, non si può ridere o ironizzare su un fatto del genere. Meglio compatito che deriso, sbaglio? Così hai pianificato ogni cosa nei dettagli. Aspettavi solo l’occasione giusta. Ti sei persino premurato di mandarmi una lettera SMS per dare l’impressione che eri preoccupato per Guglielmo. Ma non ci si improvvisa assassini. Bisogna avere talento per non farsi scoprire, e tu sei un esordiente in questo settore, n’est ce pas?
Guglielmo era diventato pallido. Non poteva credere a una soluzione del genere. Sarebbe stato meglio essere arrestato da innocente piuttosto che scoprire una verità così dolorosa. Tante volte suo fratello lo aveva rimproverato per il suo vizio (non riusciva a chiamarlo amore omosessuale, quella parola lo disgustava); in numerose occasioni lo aveva persino offeso con parole cariche di disprezzo. Ma un complotto del genere… no, era inaccettabile.
Però Orlando non tentò neppure di negare. In fondo non era un uomo meschino, era solo ossessionato dall’idea del decoro e dell’onore famigliare. Si lasciò cadere su una sedia e ammise ogni cosa.
La sera precedente era stato al Teatro Alfieri durante il primo atto, tanto per farsi vedere. Poi si era recato presso la casa di Celzani indossando la giacca marrone di cashmere di Guglielmo e una parrucca bionda…

A questo punto, avendo la vicenda preso il canovaccio di certi romanzi melodrammatici trasmessi dalla lanterna magica, ci si potrebbe aspettare un finale spettacolare: ad esempio Orlando che, preso dalla disperazione, si suicida gettandosi dalla finestra piuttosto che finire in carcere; mentre Guglielmo muore di crepacuore sconvolto all’idea di essere stato causa indiretta di un evento simile, facendo però in tempo a recitare un patetico sermone in cui perdona suo fratello per aver tentato di incastrarlo e farlo passare per assassino.
Oppure, secondo l’elegante e moralistico stile di un giallo anglosassone, Orlando dovrebbe costituirsi e ammettere le proprie colpe affrontando processo e detenzione, mentre Guglielmo rivelerebbe ai giornali la propria storia per convincere l’opinione pubblica ad accettare l’omosessualità anziché deriderla o detestarla.
Però l’omicida era stato smascherato da Alfredo Maria Deverò, che non aveva alcun particolare senso del dovere ma solo una snobistica e volubile concezione di solidarietà verso gli altri esseri umani, purché meritevoli di riceverla (e lui si ergeva a giudice supremo di tali meriti). Pertanto optò per un finale che risulterà odioso agli eventuali lettori di questa vicenda, ma gradito alla singola persona del Conte di Bussoleno.
Per prima cosa decise che non poteva permettere che Orlando, comunque suo caro conoscente, finisse in carcere. Ma non voleva neppure che ci fossero conseguenze per Guglielmo. Così suggerì una via d’uscita che venne applicata alla lettera dai fratelli Clapasson.
Quella sera stessa Orlando si imbarcò sul dirigibile diretto a San Paolo del Brasile, portandosi dietro una gran quantità di titoli al portatore, compresa un discreto numero di quelli che appartenevano a Guglielmo. Non appena giunto nel paese sudamericano, inviò un messaggio manoscritto all’ispettore Garrone tramite il quale confessava nei dettagli la propria colpevolezza e indicava il negozio in cui aveva acquistato il bastone da passeggio utilizzato per l’omicidio e il luogo dove trovare la parrucca bionda da lui indossata durante il fatto per far convergere i sospetti su suo fratello. Veniva però indicato come motivo di tale azione il desiderio di togliere di mezzo il congiunto per poter poi intascare tutta l’eredità di famiglia, confidando che i signori Clapasson avrebbero diseredato Guglielmo laddove lo avessero creduto un assassino.
Ma poi – continuava il manoscritto – si era pentito (senza però sognarsi minimamente di scontare la sua colpa in carcere, ovvio) e per tale motivo stava ora redigendo questa confessione piangendo lacrime amare in attesa di godersi la vita nella grande metropoli brasiliana non appena fosse passato il rimorso.
E così Guglielmo era scagionato, diventava erede universale dei beni dei Clapasson compensando in tal modo i titoli donati a Orlando per favorire il suo esilio forzato a San Paolo, e poteva continuare a vivere segretamente la sua storia proibita. L’opinione pubblica aveva un assassino da biasimare e l’ispettore Garrone poteva affermare di aver risolto il caso.
Insomma, tutti soddisfatti. Con la notevole eccezione dei genitori dell’assassino, definitivamente costretti a non poter invitare nel loro salotto la Marchesa Karoly e la Contessa Artaud.
Senza contare l’altro evidente insoddisfatto di questa storia, ovvero il leader nuovista Ernesto Celzani, che era stato barbaramente ed inutilmente ucciso.
“In effetti” pensava Deverò riflettendo su tale aspetto della vicenda, “sono molto addolorato al pensiero di quanto stiano soffrendo i coniugi Clapasson per questa incresciosa vicenda che ha coinvolto il loro amato Orlando e lo ha costretto all’espatrio” (e qui finivano i suoi dispiaceri).
Un attimo dopo aveva già smesso di riflettere, riprendendo a leggere l’articolo della Tribuna Illustrata in cui si parlava diffusamente della proposta di abolire i vincoli che riservavano il diritto di voto a una limitata élite di uomini benestanti e istruiti, estendendolo invece a tutti i cittadini italiani.
“Il suffragio universale… la massa ignorante che vota e mette bocca nella gestione delle cose pubbliche… Sarà la rovina per l’Italia”.
Se siete sempre più convinti che il Conte Deverò sia un gigantesco salaud, beh, vi confermo nuovamente che avete ragione. E benché lui non se ne renda conto, in fondo è proprio un italiano come tutti gli altri.
(fine)

lunedì 26 marzo 2012

Vapore 1910 - parte sette

7
“Io vorrei capire chi potrebbe avere interesse a incastrarti”, gli chiese Deverò.
“Nessuno” rispose Guglielmo. “Celzani aveva parecchi nemici grazie ai suoi metodi, probabilmente uno di loro ha voluto eliminarlo e ha sfruttato la rissa di ieri per far ricadere la colpa su un altro. Gli sono servito esclusivamente come vittima sacrificale da far condannare al suo posto, nessuna vendetta personale”.
“Ne sei sicuro? E se invece fosse il contrario? Se qualcuno avesse ucciso Celzani non per uccidere Celzani ma solo per incastrare te?”
“Oh, andiamo! Mi dai troppa importanza. Nessuno si scomoderebbe a tal punto solo per farmi incarcerare. Non merito una simile considerazione: non sono un principe ereditario da togliere di mezzo per favorire la successione al trono di un ramo cadetto della famiglia reale”.
Malgrado la situazione Guglielmo riusciva a mantenere una impressionante freddezza. Era rassegnato a finire in carcere e a essere additato come brutale omicida. Ma l’onore del suo amante e della sua famiglia sarebbero stati salvi, e questa consapevolezza gli dava sollievo, anzi, gli faceva quasi provare la sensazione di compiere un nobile sacrificio che lo avrebbe elevato al di sopra dei comuni mortali, qualcosa di simile all’estasi di un santo prima di essere martirizzato.
“C’è un’altra cosa strana”, continuò Alfredo riconducendo l’amico alla pragmatica realtà dei fatti materiali. “Suppongo che i tuoi incontri con…”
“Il mio amante” lo tolse dall’imbarazzo Guglielmo.
“Ecco, presumo siano assai riservati”.
“Certamente. Lui è un personaggio noto, e al pari mio è stato comunque vittima di qualche illazione… Se si sapesse in giro che ci conosciamo, e talvolta ci incontriamo, molti farebbero automaticamente due più due e per lui sarebbe un problema. A differenza tua, lui ha una reputazione da difendere” concluse Guglielmo ironizzando sul totale disinteresse di Deverò verso la cosiddetta opinione pubblica.
“Ma se vi vedete clandestinamente, in teoria nessuno poteva sapere della vostra réunion di ieri sera. Presumendo che davvero ci sia stato un complotto per incastrarti, è ovvio che hanno scelto la data giusta per metterti nell’impossibilità di avere un alibi. Una strategia mirata, per capirci. Perciò chi ha ucciso Celzani presumibilmente sapeva tutto. È possibile che il tuo… amante abbia rivelato confidenzialmente a qualcuno le date dei vostri…?”
“No”, lo interruppe deciso Clapasson. “Sono sicuro della sua prudenza su questo argomento”.
“Neppure qualche famigliare” ipotizzò Alfredo “che magari voleva porre fine alla vostra scomoda storia separandovi tramite la tua detenzione?”
“Non ha questi problemi” precisò Guglielmo. “Sua madre è morta alcuni anni fa, mentre il padre si è risposato con una donna francese e ora vive a Lione insieme alla figlia femmina”. Sorrise per un attimo e poi aggiunse: “Praticamente ti ho appena fatto capire chi è la persona in questione”.
Deverò annuì. “In effetti, per quel poco che lo conosco, ha l’aria di chi non rivelerebbe nulla a nessuno, figurarsi una cosa tanto delicata. Tutti lo definiscono come un uomo estremamente riservato e persino un po’ solitario, in contrasto con le abitudini tipiche dei parlamentari”.
Guglielmo Clapasson chinò la testa con un cenno di conferma. Poi, assumendo la stessa aria rassegnata di poco prima, disse: “Sapere che lui sta bene mi renderà meno sgradevole la detenzione”.
Deverò non commentò. Era assorto e rifletteva. Disponeva di una lucidità e un senso della logica straordinari, ma li utilizzava solo in casi particolari, preferendo normalmente occuparsi di materie frivole. Questa situazione però non lo era affatto, e doveva assolutamente ponderarla a fondo con tutta la profondità della sua mente.
“Non ti chiedo di coinvolgere il tuo amico. Ti propongo però un’alternativa: facciamo arrestare il vero assassino. Tu rimani libero e puoi continuare a vivere la tua vita”.
“Ti dirò, questa opzione l’avevo considerata prima ancora che tu me la proponessi” replicò Clapasson con un tono di voce ironico ma anche un po’ amaro. “Peccato per quel piccolissimo dettaglio di non avere la benché minima idea di chi possa essere l’omicida…”
“Io invece penso di saperlo”, precisò Alfredo.
Guglielmo Clapasson divenne serio, più di quanto lo fosse stato mentre si immaginava recluso presso Le Nuove regie carceri di Torino.”Davvero hai fondati sospetti su chi abbia ucciso Celzani?”
Alfredo Maria Deverò, Conte di Bussoleno, si fece a sua volta serio. Ciò lo rendeva innaturale poiché il suo volto non sembrava adatto agli atteggiamenti gravi. Era inimmaginabile senza l’usuale sorriso leggero e gli occhi spensierati che sembravano vagare liberamente alla ricerca casuale di ogni possibile forma di bellezza.
“Da quanto ho avuto modo di vedere” iniziò a parlare, “mi pare evidente che esiste un solo possibile colpevole…”
(continua)

venerdì 23 marzo 2012

Vapore 1910 - parte sei

6

Congedato l’avvocato, Orlando invitò Alfredo a seguirlo. Purtroppo Orlando era giunto nel luogo della materializzazione proprio tramite il mezzo dell’avvocato, quindi non disponeva di una vettura propria per percorrere la strada a ritroso e intanto il tempo stringeva, cosicché il Conte Deverò dovette accettare l’opzione di raggiungere casa Clapasson tramite un omnibus.
Si lasciò sfuggire qualche smorfia schifata mentre le eleganti suole delle sue scarpe si appiccicavano allo spesso strato di sputi, sporcizia e polvere che si addensava sul pavimento del mezzo di trasporto. Non era pieno al completo, pur tuttavia la quantità di gente al suo interno era notevole, e l’aria era impregnata di lezzo alcolico proveniente da alcuni operai che avevano festeggiato la domenica con qualche ampia bevuta, oltre che dal sudore penetrante di alcune donne piuttosto ambigue sia per il loro abbigliamento che per i loro sguardi non proprio innocenti.
Mentre transitavano in Piazza Castello, Deverò notò che tutti i nuovisti di Torino (ovvero i cinque teppisti coi quali aveva incrociato i pugni il giorno prima) manifestavano rumorosamente, urlando il proprio sdegno e dolore per “il vigliacco assassinio” del loro beneamato capo.
Alfredo non poté fare a meno di riflettere sui vantaggi postumi che quella morte improvvisa donava a Ernesto Celzani. Probabilmente sarebbe finito su qualche antologia letteraria futura, ricordato come
Fondatore del movimento di avanguardia chiamato Nuovismo, prematuramente scomparso prima di poter trasformare in opere compiute l’impeto creativo della sua esuberante gioventù.
Se avesse vissuto sino alla vecchiaia, la mediocrità delle sue poesiole lo avrebbe relegato nell’oblio riservato ai letterati privi di talento, mentre la morte illuminava di una possibile luce le sue future poesie che ormai non sarebbero state più composte ma – proprio per questo – potevano essere presunte, sognate, immaginate, con tutto il fascino ambiguo della creazione potenziale ma irrealizzata.
Insomma, un decesso provvidenziale per le ambizioni di Celzani. Tanto bastava per far assolvere l’assassino e renderlo persino meritevole nei confronti della vittima. Ma l’ispettore Garrone non poteva certo soffermarsi su considerazioni di tale natura. Lui, rappresentante della legge, era tenuto a seguire l’effimera logica delle contingenze materiali, e dal suo punto di vista una vita soppressa restava inesorabilmente un crimine, comunque lo si esaminasse.
Tali considerazioni fecero sì che Deverò non si sentisse più amareggiato all’idea di non essere stato lui l’omicida. L’uccisore di Celzani aveva reso uno splendido servizio all’immeritata gloria postuma del nuovista, e il Conte non aveva certo voglia di accollarsi quello spiacevole merito.
Ad accrescere il suo buonumore, giunse anche una piacevole visione: sul lato nord di Piazza Castello sopraggiungeva un reparto di cavalleggeri del Regio Esercito, certamente inviato per disperdere i manifestanti di cui si era sovrastimato il numero. Quantunque sia eticamente riprovevole godere delle disgrazie altrui, Deverò sorrise all’idea dei baldanzosi nuovisti presi a calci da antiquati cavalli. Sì, non vi era dubbio: il movimento nuovista era ufficialmente terminato.
(Qualcuno di voi lo starà già pensando, qualcun altro lo sussurrerà sotto voce… Beh, non preoccupatevi, vi tolgo io dall’imbarazzo: se ritenete che il Conte Alfredo Maria Deverò sia un incommensurabile salaud, avete perfettamente ragione).
“Perché Guglielmo non si è presentato e ti ha delegato al suo posto?”, chiese improvvisamente a Orlando.
“Perché… ne parliamo a casa”.

La residenza torinese dei fratelli Clapasson era assai signorile, quantunque non all’altezza del quartierino di Deverò.
Guglielmo stava affacciato alla finestra, pensieroso.
“Allora mio caro amico, che mi dici? Quanti colpi ci sono voluti per far fuori il bestione?”
Il tono di Alfredo era scherzoso, ma la risposta di Guglielmo non lo fu affatto.
“Sono innocente”.
“Lo sapevo bene, non ne ho mai dubitato. Anzi, è abbastanza evidente che si tratta di un ignobile complotto alle tue spalle” gli disse Deverò accennando alla propria ipotesi che l’assassino avesse voluto incastrarlo.
“Chiunque sia stato, l’ha pensata bene”, commentò Guglielmo senza sentirsi sollevato.
“Ma si può sapere che hai? Sei innocente, quindi perché sei così spaventato?”
Il giovane ritornò alla finestra. Non riusciva a guardare negli occhi suo fratello, che dopo un lungo, imbarazzato silenzio parlò al suo posto.
“È spaventato perché non ha un alibi, questo idiota! O meglio: lo avrebbe pure, ma guai a lui se si permette di utilizzarlo!” gridò Orlando.
“Non ti preoccupare”, rispose Guglielmo. “Sai bene che non trascinerei mai quella persona nel fango”.
“Ah, certo! La tua discrezione è solo per difendere quella persona, non l’onore del tuo cognome e la rispettabilità della tua famiglia!”
Deverò assunse un’aria assorta. Nessuno dei due fratelli stava parlando esplicitamente, ma lui sapeva bene a cosa si riferivano. Cosa aveva gridato Celzani quando era entrato come un gorilla infuriato al Caffè San Paolo?
Un pederasta. Guglielmo Clapasson. É qui?
Curioso no? Detto da Celzani era solo uno stupido insulto, degno di uno stupidissimo scimmione che si atteggiava ad artista di avanguardia con metodi da teppista. Invece, inconsapevolmente, stava affermando una verità.
Guglielmo era un bravissimo giovane, ma aveva avuto la sfortuna di nascere in una nazione dove l’uomo doveva per forza essere attirato dalle donne, altrimenti dava più scandalo di un ladro o di un assassino. Era appunto il caso che si stava delineando: meglio passare per omicida rinunciando al proprio alibi, piuttosto che avere un testimone a favore e infangare il nome dei Clapasson con l’orrido marchio della promiscuità sessuale fra maschi.
“Scusatemi se mi intrometto” intervenne Alfredo con un tono insolitamente preoccupato, “Ma Guglielmo non può finire in carcere per una colpa non commessa”.
“Se l’avvocato sa gestire bene la causa” rispose quest’ultimo “al massimo mi daranno dieci anni”. Aveva l’aria di un affarista che fa un calcolo rassegnato sulla quantità di denaro che sta per perdere a causa di un investimento infruttuoso. “È un sacrificio fattibile”.
Per un attimo Deverò perdette la sua imperturbabile flemma e iniziò a gridare come un comune mortale.
“E se invece te ne danno venti? E poi, lo sai cosa significa rinunciare a dieci o quindici anni della tua vita? Ti rendi conto di ciò che stai dicendo?”
Con sguardo e voce glaciale, Orlando Clapasson lo invitò a desistere da tali consigli.
“Ti conosco da anni Alfredo, e le nostre famiglie sono sempre state legate da amicizia. Proprio in nome di tale amicizia ti chiedo di non intrometterti in questa vicenda. Nostro padre è malato di cuore proprio a causa delle inevitabili chiacchiere che circolano su Guglielmo, e si vergogna a farsi vedere in società. Nostra madre organizza i suoi salotti il martedì, invitando solo pochissime e selezionate signore che evitano di porre quesiti imbarazzanti. Avrebbe enorme piacere ad ospitare la Marchesa Karoly o la Contessa Artaud, però poi non potrebbe sottrarsi a certe fastidiose domande… Se la cosa finisse addirittura sui giornali, penso che morirebbero entrambi”.
“Ma non avete qualche testimone di comodo che possa coprirlo?” consigliò Deverò, che in taluni casi non si poneva alcuno scrupolo morale.
“Io ero a teatro, papà e mamma si trovavano a Moncalieri. Molte persone ci hanno visto, se sostenessimo che Guglielmo era con noi verremmo sbugiardati in un attimo e peggioreremmo la situazione. Quanto alla possibilità di pagare qualcuno per mentire a suo favore, mi pare alquanto rischioso”.
“Va bene”, cedette Deverò. “Però ti chiedo di poter parlare in privato con Guglielmo. Solo due parole tra amici”.
Orlando acconsentì di malavoglia. Guglielmo e Alfredo restarono soli.
(continua)

mercoledì 21 marzo 2012

Vapore 1910 - parte cinque

5

Alle cinque e due minuti pomeridiane, Deverò giunse di fronte al palazzo in cui era avvenuto l’omicidio. Il Conte era piuttosto infastidito poiché la profezia maligna di Garrone si era avverata: nonostante il gran goal di Ajmone Marsan, la Juventus aveva dovuto inchinarsi all’U.S. Milanese che aveva espugnato il campo di Corso Sebastopoli con un incontestabile 2-1.
L’ingresso dell’appartamento in cui viveva Ernesto Celzani era piuttosto affollato. Non era presente alcun parente di Celzani, che da anni aveva rotto ogni rapporto con la sua famiglia, ma c’erano l’ispettore Garrone, due guardie, il tecnico addetto alle materializzazioni, e a sorpresa Orlando Clapasson con un avvocato.
“Mio fratello era impossibilitato a venire e ha delegato me” stava spiegando all’ispettore.
Deverò si avvicinò al fratello del suo amico. “Bonsoir Orlando, presumo che anche Guglielmo sia sospettato, n’est ce pas?”
“Purtroppo sì”, ammise Orlando. “Si è messo in bel guaio”, sussurrò.
“Suvvia, sono solo inevitabili formalità dovute allo spiacevole episodio di ieri mattina" minimizzò Alfredo. "Fra ventiquattro ore saremo stati entrambi cancellati dall’elenco degli indiziati”.
“Non sarà così semplice per Guglielmo” accennò Orlando che appariva piuttosto teso. Poi, lanciando un’occhiata obliqua all’ispettore e alle guardie che già sembravano origliare, aggiunse: “Ne parleremo con calma in un luogo più appartato”.
L’avvocato annuì in segno di approvazione.
In quel momento Deverò capì il motivo per cui Garrone aveva accettato la sua presenza durante la materializzazione: l'ispettore sperava evidentemente di cogliere complici occhiate o cenni d'intesa tra il Conte e l'altro sospettato (o il fratello di quest'ultimo presentatosi in sua vece).
Il corpo di Celzani giaceva ancora disteso a terra. L’assassino lo aveva colpito violentemente con un bastone da passeggio, peraltro un modello abbastanza comune che si poteva acquistare per pochi soldi in numerose rivendite della città. Ovviamente non vi erano tracce sulla superficie del bastone, eccetto il sangue dell’ucciso. Una larga macchia rossa circondava la sua testa.
“Io sono pronto” intervenne a voce alta il tecnico che stava finendo di spargere la polvere sull’occhio della vittima e aveva già inserito il piccolo proiettore di luce a gas accanto al visore in vetro poggiato sull’iride di Celzani. “Se fate buio provvedo a creare la materializzazione”.
Le persiane vennero chiuse, solo un soffuso bagliore rischiarava l’oscurità che ora avvolgeva la stanza. Il tecnico accese un fiammifero e diede fuoco allo stoppino di quattro piccole sfere fumogene poste intorno al cadavere. In pochi istanti le sfere liberarono una coltre spessa di nebbia artificiale, quantunque non densa, e l’aria della stanza si riempì di una quasi solida cortina polverosa. Qualcuno dei presenti tossì, l’avvocato dei Clapasson iniziò addirittura a lacrimare, irritato dalle particelle urticanti contenute nel fumo.
“Scusate, ma era la quantità minima necessaria” spiegò il tecnico quasi a volersi giustificare. Un attimo dopo azionò il proiettore. La luce opaca del gas illuminò la nebbia dal basso verso l’alto nel punto in cui giaceva il corpo di Celzani. Una sagoma tridimensionale prese lentamente forma nella foschia azzurrina della stanza.
Era chiaramente un uomo. Sfocato, indistinto, ma senza dubbio uomo. Sorreggeva un bastone da passeggio, con l’aria di aver appena sferrato un colpo. Appariva visto dal basso, come se la visuale della vittima fosse quella di un uomo che stava cadendo all’indietro.
In effetti si trattava di una visione piuttosto credibile: Celzani era stato colpito e, crollando al suolo, aveva fatto in tempo a vedere l’uomo che lo aveva aggredito alle spalle.
L’ispettore e le guardie cominciarono a girare attorno all’uomo di fumo osservandolo nei dettagli.
L’assassino di nebbia continuava a rimanere parzialmente sfocato, ma prendeva colore. I suoi capelli erano biondi, la sua elegante giacca era marrone, apparentemente di cashmere.
“Direi che è una materializzazione realistica” azzardò Garrone. “Non mi pare l’allucinazione di una persona sconvolta, sembra proprio la lucida contemplazione dell’assassino da parte della vittima nel suo ultimo momento di coscienza prima della morte”.
Poi, con aria molto cauta, si rivolse a Orlando Clapasson e domandò: “Sbaglio o quest’uomo somiglia notevolmente a suo fratello Guglielmo?”
“Non glielo permetto!” gridò Orlando.
“La materializzazione dell’ultima visione non è considerata una prova attendibile ai sensi dell’articolo 189 bis del codice di procedura penale, prescindendo dall’apparente verosimiglianza e concordanza con gli indizi accusatori”, aggiunse prontamente l’avvocato.
Seguì una breve discussione fra Garrone e l’avvocato, che si appartarono a un angolo. Mentre i due parlavano, Alfredo Maria Deverò osservò a sua volta l’uomo di fumo tirato fuori dalla retina di Celzani. Gli girò attorno facendo attenzione a non interrompere il flusso di luce del proiettore e a non disperdere il fumo che ormai si stava dileguando.
“Scusi se mi intrometto”, intervenne nei confronti dell’ispettore con la sua tipica espressione un po’ supponente e talvolta decisamente irritante. “Quest’uomo ha gli occhi marroni. Guardate bene”.
“E allora?”, replicò infastidito Garrone.
“Guglielmo ha le iridi azzurre come il cielo. I capelli sono biondi come i suoi, e anche la pettinatura sembra identica, però… guardate come sono stopposi questi ciuffi. Mi sembra evidente che è una parrucca”.
“Andiamo Deverò! Celzani ha visto l’assassino per una frazione di secondo e poi è deceduto. Non poteva osservare nei dettagli! Il colore degli occhi e la conformazione dei capelli sono indistinti per questo motivo!”
“Non sono indistinti. Sono stati catturati dalla retina della vittima sin troppo bene. Ma anche questa è una stranezza. Perché l’assassino gli ha dato la possibilità di farsi vedere in faccia pur sapendo che si può eseguire la materializzazione dell’ultima visione, che non sarà una prova valida ma è pur sempre un indizio utile per le indagini? Lo aveva colpito alle spalle, sarebbe stato facile dargli il colpo di grazia un istante dopo. Invece lo ha lasciato agonizzare permettendogli di guardarsi attorno”.
“A cosa vuole arrivare?” domandò Garrone che non sopportava i civili che si atteggiavano a poliziotti.
“La mia impressione”, continuò Deverò, “É che l’omicida abbia volutamente tentato di incastrare Guglielmo Clapasson, vestendosi come lui e indossando una parrucca bionda, ovviamente permettendo a Celzani di vederlo per un attimo prima di morire. Però non ha potuto modificare i propri occhi”.
“Se il signor Clapasson avrà la compiacenza di farsi interrogare”, osservò in tono polemico Garrone, “vedremo cosa ha da dirci in merito”. Poi, rivolgendosi a suo fratello Orlando e all’avvocato, gli confermò che Guglielmo restava nell’elenco degli indiziati e li ammonì a farlo presentare in commissariato entro le otto pomeridiane onde non aggravare la sua posizione.
Infine invitò i civili ad abbandonare il luogo del delitto per permettere alle forze dell’ordine di poter ultimare le procedure di accertamento e sigillare porte e finestre.
Deverò e Orlando Clapasson si avviarono assieme fuori del palazzo.
(continua)

martedì 20 marzo 2012

Vapore 1910 - parte quattro

4

Mentre Varetti riferiva la notizia a Deverò, l’ispettore Garrone comparve alle spalle dei due.
“Posso porle qualche domanda?” esordì rivolgendosi al Conte.
“Purché non mi costringa a rinunciare alla visione della partita”, replicò quest’ultimo.
Canfari li fece accomodare in tribuna in due posti riservati, che garantivano una sufficiente discrezione.
“La notizia gliela ha già data il presidente Varetti presumo”.
“Presume bene, e a questo punto la coscienza mi impone di confessare i miei delitti. Ebbene sì, non sono stato io uccidere quello scimmione. Avrei voluto farlo ma, purtroppo, a quanto pare sono stato preceduto. A quale pena sarò condannato per il mancato omicidio di un inutile, arrogante idiota?”
L’ispettore non apprezzò l’etereo umorismo di Deverò e gli rammentò eventi assai più concreti. “Numerosi testimoni affermano che ieri, nella tarda mattinata, lei e il signor Clapasson Guglielmo siete stati protagonisti di un violento alterco con Celzani e alcuni suoi amici in Piazza San Carlo”.
“Questo è quanto hanno riportato i farseschi notiziari della lanterna magica, ma la realtà è stata alquanto diversa. C’é sempre di mezzo quel piccolo dettaglio mai troppo valorizzato della responsabilità individuale, dettaglio che si sperimenta già da bambini frequentando il collegio: uno cerca la lite, l’altro si difende, arriva la maestra e punisce entrambi, come se fossero sullo stesso livello. La brutta abitudine di generalizzare le colpe e suddividerne matematicamente le responsabilità in parti uguali su ogni essere umano coinvolto in una disputa, prima o poi porterà l’Italia alla rovina”.
(Non date peso a quest’ultima frase: Deverò riesce sempre a notare qualcosa che “prima o poi porterà l’Italia alla rovina", è una sua fissazione).
“Dove era lei ieri notte?” domandò con concreta solerzia l’ispettore Garrone.
“Nel mio quartierino in Via Po”.
“Quindi presumo che il suo maggiordomo possa testimoniare a suo favore”.
“Certamente il mio sfaticato Fulvio confermerà che non sono uscito di casa; ma anche il Dottor Ariaudo, giacché ho dovuto sottopormi ad alcune medicazioni come inevitabile epilogo per le conseguenze ricevute nel violento alterco con Celzani e i suoi scagnozzi”.
L’ispettore Garrone ponderò le parole del Conte. Esitò per alcuni istanti, poi decise di proseguire nel discorso.
“Come può immaginare la scena del delitto è ancora intatta. Ma ancora per poco. A breve usciranno i giornali del pomeriggio e riporteranno la notizia dell’omicidio, quindi entro le sei pomeridiane i nostri tecnici dovranno obbligatoriamente eseguire la materializzazione dell’ultima visione del morto... che magari le interessa”.
Alfredo Maria Deverò serrò le labbra pensieroso. “Mi sembrava che tale procedura non fosse più accettata come prova giudiziale”.
“Infatti non ha valore legale” confermò Garrone, “perché nel momento del decesso la lucidità può essere parziale, e l’immagine rimasta impressa sulla retina potrebbe essersi mescolata ad allucinazioni causate dalla violenta emozione della consapevolezza di essere in punto di morte”.
“E allora perché la eseguite?”
“Può pur sempre fornire qualche elemento utile”.
Deverò comprese che l’ispettore aveva in mente qualcosa. Quella materializzazione serviva a creare pressione sui sospettati, ça va sans dire.
“Potrei essere presente?”, domandò.
“Prima però deve accettare di farsi iscrivere nell’elenco degli indiziati”, replicò con un sorriso elegante l’ispettore.
“Un minuto fa le ho detto che ho due testimoni oculari a mio favore, se pensa davvero che stavo bluffando io…” (Si interruppe poiché i giocatori stavano entrando in campo, e Deverò era curioso di sapere quali sarebbero stati gli undici bianconeri schierati).
“In realtà non sospetto di lei, ma la sua presenza durante la materializzazione potrebbe farmi comodo…” spiegò in modo sibillino Garrone. “La burocrazia giudiziaria ha le sue regole, e solo un indiziato – e il suo avvocato – possono assistere alla materializzazione dell’ultima visione”.
“Capisco. Quindi basta autoaccusarsi di un omicidio – e poi ritrattare – per prendere parte allo spettacolo tecnologico della ricostruzione dell’ultima visione di un morto ammazzato”.
“Esatto. La signora Carolina Invernizio lo ha fatto diverse volte”.
Deverò sorrise. Conosceva personalmente la scrittrice, assai più intelligente e brillante di quanto si potesse supporre leggendo i suoi romanzi, e sapeva bene quanto fosse interessata a tali macabri dettagli per poterli trascrivere accuratamente.
“E sia. Consideratemi temporaneamente indiziato in attesa delle prove inoppugnabili che produrrò nelle prossime ore per scagionare la mia persona. Però, adesso, mi consenta di assistere alla partita”.
“Deve prima firmare il verbale nel quale riconosce di essere stato messo a conoscenza delle accuse che gravano su di lei”.
“Ancora burocrazia. Tutta questa carta e queste firme porteranno alla rovina la nostra giovane nazione”.
I due si diedero appuntamento alle cinque pomeridiane presso il domicilio del morto.
Poi Deverò si concentrò sul suo vizio domenicale. Palla al centro, e la partita ebbe inizio. I bianconeri torinesi della Juventus contro altri bianconeri, quelli meneghini dell’Unione Sportiva Milanese, stavolta però in completo bianco da trasferta.
Prima di congedarsi l’ispettore Garrone, verace tifoso del Torino e amico di vecchia data del presidente granata Dick, non resistette alla tentazione di pronosticare la sconfitta della squadra rivale.
(continua)

domenica 18 marzo 2012

Vapore 1910 - parte tre

3
Domenica 24 aprile 1910

A distanza di quasi ventiquattro ore, lividi e graffi erano ancora ben visibili sul volto del Conte Alfredo Maria Deverò. Lo infastidivano soprattutto per la disarmonia epidermica che causavano al proprio incarnato. Gli provocavano altresì del dolore fisico, beninteso, ma lo considerava un problema secondario che durante la notte si poteva placare grazie a un infuso di valeriana e camomilla, mentre durante il giorno lo avrebbe gestito con l’aiuto di alcuni oppiacei.
Il quartierino torinese di Deverò, al secondo piano di un’elegante palazzo in via Po, era immerso nel silenzio. Fulvio, il maggiordomo, era uscito per alcune commissioni, e il Conte riposava sul sofà ammirando una fanciulla romana all'interno di una domus ritratta dalla mano sapiente del pittore inglese John William Godward.
Un breve fischio, seguito dal suono metallico di una pallina che cadeva in un contenitore, lo destò dalla sua estatica contemplazione. Una lettera era appena pervenuta tramite il costosissimo servizio di posta pneumatica SMS (Servizi di Messaggeria Sotterranea). Dopo aver percorso svariati chilometri di tubi nel sottosuolo della città, sospinta dalla potenza del vapore e indirizzata di volta in volta nel percorso corretto da solerti addetti, biforcazione dopo biforcazione, livello dopo livello, la pallina di ferro contenente il messaggio aveva raggiunto la cassettina delle lettere all’interno della casa.
“Fulvio riesce sempre a uscire prima dei momenti in cui dovrebbe svolgere le sue mansioni” pensò il Conte. Con rassegnazione dovette alzarsi come un comune plebeo, andare sino all’atrio della casa, svitare la pallina di ferro usando le proprie nobili mani per tale bassa attività degna di un manovale, e solo alla fine ebbe la possibilità di compiere l’attività a lui più consona di leggere il messaggio ricevuto.
Era una missiva di Orlando Clapasson, fratello minore di Guglielmo. Chiedeva a Deverò se avesse notizie di Guglielmo poiché non era ancora rientrato in casa dalla sera prima. La lettera era datata
Torino, 24 aprile 1910, ore 11 e 46 minuti
L’elegante orologio a pendolo dell’atrio segnava mezzodì proprio in quel momento.
“Quattordici minuti per consegnarlo”, notò. Ne derivarono due considerazioni: il servizio SMS stava diventando troppo lento; e in quel frattempo era verosimile che Guglielmo avesse dato notizie di se. In realtà l’orario causò una terza considerazione, ovvero che doveva prepararsi per cedere come d'abitudine al suo vizio domenicale.
Deverò era un aristocratico vagamente classista, e anche un po’ altezzoso, però non sapeva rinunciare a quel piccolo svago, più adatto ai piccoli borghesi che non ai galantuomini. Si giustificava sostenendo che occorre pur concedersi delle debolezze, n'est ce pas?
La pendola rintoccò il primo dei dodici colpi. Il mezzo del servizio ATM (Aerea Torinese Mobile) era probabilmente in arrivo. Indossò un elegante giacca di tweed, aprì la finestra che dava sul balconcino del salone e attese per alcuni istanti.
Una cabina simile a quella di un ascensore calò giù dal cielo, sorretta da un cavo metallico, sino a giungere davanti all’enorme finestra. Una guida ai lati le permise di scorrere perfettamente aderente al telaio. La porta della cabina si aprì. Il bigliettaio porse i propri omaggi al passeggero e lo fece accomodare.
“Buongiorno Conte Deverò. Destinazione Corso Sebastopoli, rammento bene?”
“Rammenta benissimo”.
La cabina risalì verso l’alto, fino a raggiungere il dirigibile che eseguiva i trasporti aerei urbani nella città di Torino.
Al pari della posta SMS, era un servizio con costi esorbitanti, e a dire il vero non era neppure tanto efficiente. Sapete, prelevare a domicilio ogni singolo passeggero comporta una discreta perdita di tempo, e se occorreva essere puntuali forse era meglio utilizzare un prosaico omnibus. Però significava mescolarsi alla folla della gente comune, sedere accanto a sartine chiacchierone o maestri di scuola coi vestiti sporchi di gesso. Il servizio ATM era esasperatamente lento, ma permetteva di sedere comodamente su una poltroncina nel bel mezzo di una selezionata compagnia di galantuomini, leggere con comodo La Tribuna sorseggiando una tazza di tè, e soprattutto ammirare Torino dall’alto. Sorvolare la Mole era un piacere inestimabile.
La traversata fu breve. Prima ancora che finisse di leggere gli articoli in prima pagina, il bigliettaio si accostò al Conte. “Siamo giunti alla sua destinazione”.
Deverò pagò il prezzo della corsa, pari allo stipendio mensile di un impiegato bancario, e la cabina lo calò giù fino alla piattaforma di ricezione all’ingresso del campo di gioco dello Juventus Football Club.
Il presidente Carlo Vittorio Varetti e il fondatore del club Eugenio Canfari  accolsero Deverò.
“Caro Vittorio, caro Eugenio, bonjour. Speriamo che oggi l’arbitro non sia troppo fantasioso”, scherzò rammentando l’ultimo incontro casalingo dei bianconeri, trasformatosi da calcio a lotta greco-romana grazie all’estrema creatività del direttore di gara che aveva assegnato un rigore decisamente inventato agli ospiti rossoblù del Genoa Cricket & Football Club.
Ma Canfari e Varetti, anziché rispondere a tono, mantennero un contegno serio. Con un certo imbarazzo il presidente chiese al Conte di seguirlo in un angolo appartato.
“Alfredo, c’è l’ispettore Garrone che ti attende”.
“Ma non è un sostenitore del Torino?”
“No, il calcio non c’entra. Vuole parlarti a proposito di… un omicidio”.
“Omicidio?”
“Sì. Ieri notte è stato assassinato Ernesto Celzani”.
Vraiment? Sul giornale non viene riportata alcuna notizia del genere”.
“Probabilmente non è stato ancora comunicata alla stampa. Comunque, visto che in compenso tutti i quotidiani dedicano spazio alla tua… esibizione di ieri in Piazza San Carlo, presumo che Garrone vorrà porre qualche domanda a te e al signor Guglielmo Clapasson”.
(continua)

venerdì 16 marzo 2012

Vapore 1910 - parte due

2

I cinque seguaci di Celzani stavano zitti. Solo il loro capo parlava, evidentemente per conto di tutti.
“Insultato il movimento Nuovista. Ieri, un articolo sulla Gazzetta del Popolo. Autore: Clapasson Guglielmo. Pagherà l’offesa”.
Di fronte a una così penosa automortificazione delle proprie capacità linguistiche, Clapasson non poté fare a meno di aggravare la sua posizione nei confronti del sestetto nuovista.
“Il vostro neo-linguaggio è patetico come le vostre presunte poesie”, commentò con l’intonazione di un medico che non può più salvare il malato moribondo.
Celzani ribadì il proprio credo estetico. “Ora paghi il conto. Ti dedico un neo-poemetto, niente rime solo, enumerazione:
Il nuovo contro il passato – azione 42
Calci, pugni, sputi,
ossa rotte, sangue, lividi.
Pederasta ottocentesco,
fra un minuto reperto archeologico.
Pronto per essere seppellito
o invetriato in un museo.
Sicuramente non piaciuta. Normale. Tu sei il passato. Il nuovo ora ti cancella”.
L’amico di Clapasson si rivolse ai nuovisti.
“Volete forse soddisfazione tramite un duello? Io sono pronto a fare da secondo al mio amico Guglielmo, che dovrebbe scegliere l’arma visto che è stato sfidato”.
“Buffonate del secolo scorso, non interessano”,  replicò Celzani. “Ventesimo secolo, guardiamo al futuro. Non offeso io, ma un’intera categoria. Il duello lo farà con tutti gli appartenenti”.
I cinque al suo seguito si tolsero le giacche e tirarono su le maniche della camicia.
A quel punto anche l’amico di Clapasson si sfilò la giacca, ma senza fretta e con impeccabili movimenti signorili. La consegnò a un ragazzino che li stava osservando, chiedendogli se poteva reggergliela per qualche minuto in cambio di una mancia. “Non sgualcirla però, !”
Poi parlò a Guglielmo. “Questi sono i progressi portati dal Nuovismo: l’aggressione di sei energumeni ai danni di un solo opponente. Direi che tali novità somigliano nettamente alle abitudini dei trogloditi dell’età della pietra. Davvero un gran passo avanti. Io mi prendo i tre di destra, a te lascio i due di sinistra e ovviamente Celzani”.
“Questione che non ti riguarda”, ringhiò quest’ultimo. “Interessa noi e Clapasson. Tu sei uno sconosciuto”.
L’amico di Guglielmo sorrise. “Allora mi faccio conoscere subito. Mi permetta: sono Alfredo Maria Deverò, Conte di Bussoleno. La famiglia alla quale appartengo è un ramo collaterale dei conti Deveraux di Chambéry, e in effetti l’italianizzazione del nostro cognome con la O accentata è la conseguenza di una scelta di mio nonno, Carlo Alfredo, che il giorno stesso dell’armistizio di Villafranca rimase talmente disgustato dalla viltà francese da voler cancellare ogni traccia gallica della nostra ascendenza”.
“Me ne fotto degli alberi genealogici. Radici marce nel pantano dell’ottocento”.
“Non l’avrei mai detto, eppure lei ha un’aria così elegante e raffinata…”
“Tu fuori della questione. Va lontano”.
“Hai paura” lo provocò Clapasson. “In sei contro uno vi sentivate forti, ma contro due già vi tremano le gambe”.
Una delle cinque ombre di Celzani fece spallucce. Un’altra lanciò un’occhiata torva.
“Ma cosa avrai mai scritto di così odioso verso i nuovisti?”, scherzò Deverò rivolgendosi a Clapasson. “Tu sostieni che sono la brutta copia dei futuristi, è vero. Ma perché si sentono offesi? Semmai era il signor Marinetti a doversi risentire per essere stato paragonato ai qui presenti animali non completamente evoluti. Mi spiace dirtelo Gugliemo, ma il tuo articolo sulla Gazzetta del Popolo è inesatto: il signor Celzani e i suoi seguaci sono una brutta copia dell’arroganza e della stupidità, non del futurismo”.
“Va bene”, lo interruppe un animale non completamente evoluto. “Programmata una lezione a un pederasta e invece trovati due, meglio così. Unico sforzo e doppio risultato”.
A quel punto la degenerazione della discussione si risolse nell’inevitabile scontro fisico.
Deverò e Clapasson tenevano la guardia con studiata attenzione, muovendo le braccia per sferrare colpi improvvisi con torsioni armoniche ed eleganti.
I sei nuovisti invece… beh, usando il loro neo-linguaggio si potrebbe dire:
tirano colpi calci testate spinte tre contro uno colpi bassi urla insulti merda! colpisci caduta a terra polvere sudore caos.
I due amici aggrediti stavano schiena contro schiena per evitare attacchi alle spalle, e si muovevano in sintonia come se eseguissero un balletto.
Celzani e i nuovisti li aggredivano
scalciando sputando assalto a testa bassa sgambettando ringhiando tirando pezzi di selciato lanciaglieli in faccia! sudando delirando offendendo bastardo! femmina! pederasta!
Senza prolungarsi oltre, immagino che vorrete conoscere l’esito di questo scontro tra due diverse concezione dell’estetica. Eppure è talmente ovvio: se le forze in campo erano sei contro due, come volete che si sia concluso?...
I nuovisti ebbero la meglio, anche se dovettero sorreggersi a vicenda per abbandonare il terreno di battaglia, e avevano le gengive troppo doloranti per urlare grida di vittoria.
I due dandy però erano addirittura a terra sanguinanti, e per rialzarsi dovettero attendere qualche istante.
“Tutto bene signori?” domandò il ragazzino che sorreggeva la giacca di Deverò.
“Per niente. La camicia si è strappata”, rispose quest’ultimo porgendo la mancia promessa.
“Ti va un’altra tazza di tè?” chiese Clapasson con l’aria di uno che doveva assolutamente star comodo qualche minuto per fare l’appello delle proprie ossa e verificare se rispondevano tutte.
“Una tazza di cioccolata, c'est mieux”, propose Deverò mentre si avviava zoppicante verso l’ingresso del Caffè San Carlo, seguito dallo sguardo incuriosito e un po' sdegnato dei passanti che avevano assistito alla rissa.
(continua)

mercoledì 14 marzo 2012

Vapore 1910

1

Sabato 23 aprile 1910
Il Caffè San Carlo, con le sue armoniose architetture e la dorata luminosità dei suoi interni, era da molti decenni uno dei luoghi di ritrovo più signorili di Torino.
Sui salottini sedevano uomini eleganti e dame dell’alta società che, malgrado fosse ancora mattino, già sfoggiavano cappelli a falde larghe e abiti lunghissimi che coprivano le gambe sino al tallone.
Due di queste signore erano letteralmente ipnotizzate dalla lanterna magica, che proiettava su un piccolo schermo bianco la stilizzata figura di un oratore a mezzo busto. L’alternarsi delle figure disegnate su foglietti di carta trasparente, che passavano in sequenza davanti al cono di luce, faceva muovere bocca e occhi alla figura sullo schermo, e le parole provenienti da un’incisione di cera che girava sul grammofono sembravano che venissero pronunciate da lui.
Tra i vari spettacoli offerti dalla lanterna magica questo era uno di quelli che riscuotevano maggior successo. Il suo nome era TGCOM (Teatrino Giornalistico Colori e Ombre in Movimento), ma veniva popolarmente chiamato “tiggì”.
Il mezzo busto stilizzato, realistico nei lineamenti ma definibile chiaramente come un “disegno animato”, concentrava l’attenzione delle due signore già dette con la sua voce gentilmente fornita da un anonimo dipendente della TGCOM che quella mattina aveva inciso le proprie parole declamanti le notizie principali.
…La Federazione del Giuoco Calcio sta selezionando i migliori giocatori italiani per creare una squadra che rappresenti il nostro paese. La compagine affronterà una selezione transalpina composta da giocatori francesi. La partita è prevista il giorno 15 prossimo venturo del mese di maggio, e si svolgerà alla presenza di Sua Maestà Vittorio Emanuele III e della Regina Elena che presenzieranno all’evento…
In un salottino poco più innanzi sedevano due giovani vestiti come anglici dandy, senza baffi né basette, ma coi capelli leggermente più lunghi di quanto avrebbe preteso il buon gusto.
Uno dei due, biondo, esprimeva fastidio per le signore che guardavano la lanterna magica.
“È una cosa inventata per gli analfabeti, per coloro che non sanno leggere. Perché una persona istruita preferisce quel volgare teatrino – nel vero senso della parola – alla lettura di un quotidiano?”
L’altro, sorseggiando tè, sorrideva con aria spensierata. “Da tempo ho smesso di credere che l’alfabetizzazione possa migliorare la persona, a meno che non venga integrata con un’adeguata educazione all’uso che se ne può fare”.
Al tavolo accanto sedevo io, Ariano Geta. I due tipi in questione neanche mi guardavano, ma erano gli unici. Tutti gli altri eleganti avventori dell’elegante Caffè ogni tanto mi lanciavano un’occhiata che tradotta in parole significava qualcosa come: “Uh, ecco quel tipo bizzarro che sostiene di venire dal futuro e di aver deliberatamente scelto di vivere nel primo decennio del secolo ventesimo. Non è il caso di sprecare troppe parole su di lui: è solo uno stupido millantatore”.
La metà di ciò che pensavano era pura verità (sono davvero uno stupido millantatore), perciò ritengo di poter perdonare l’altra metà – errata – delle loro convinzioni. Che poi, cosa c’è di tanto strano in un uomo che viene dal futuro?
Comunque non intendo parlare di me, ma di quei due signori a me vicini.
Quello biondo stava lanciando un’occhiata compassionevole a Emilio Salgari che, seduto a un altro salotto, beveva il suo terzo vermout della mattinata.
“Farà una brutta fine”, disse a bassa voce con tono pietoso.
Prima che il suo amico potesse aprire bocca per esprimere la sua opinione in merito, le porte del Caffè si spalancarono in modo violento per l’ingresso veemente di sei giovani piuttosto aggressivi. Uno si mise davanti agli altri con l’aria di essere il capo, e alcuni dei presenti lo riconobbero: era Ernesto Celzani, fondatore del Movimento Nuovista, avanguardia artistica e letteraria che aveva prodotto numerose chiacchiere e assai minime opere.
Si mise al centro della sala con aria altezzosa e urlò parole ad alta voce.
“Un pederasta. Guglielmo Clapasson. É qui?”
(Il neo-linguaggio era una delle loro pantomime preferite: sostenevano che l'idioma italiano fosse eccessivamente ridondante e, pertanto, occorresse sfoltirlo per metterlo alla pari con la moderna essenzialità che esigeva il progresso).
“Penso che cerchino la lite”, osservò il signore biondo, che poi era proprio il Guglielmo Clapasson ferocemente invocato da Celzani.
“Benissimo”, commentò il suo amico terminando di bere il tè. “L’attività ginnica è fondamentale per il benessere del corpo, e cosa c’è di meglio di una sana sessione mattutina dedicata alla nobile arte del pugilato? Sono pronto”.
I due si alzarono in piedi. Non si qualificarono ma le parole erano decisamente inutili.
I sei nuovisti si avvicinarono minacciosi. Le loro giacche e cravatte brillavano di decorazioni con fili di metallo, i baffi e le basette erano rasati in fogge bizzarre formando vistose linee nere sui loro volti (anche questa discutibile estetica era frutto della loro interpretazione del “progresso”).
I clienti del San Carlo osservavano la scena con un po’ di timore ma anche con crescente curiosità. Le signore che un attimo prima seguivano il tiggì sulla lanterna magica ora erano girate verso il nuovo teatrino che appariva assai più dinamico e stuzzicante. Ma il gestore del Caffè interruppe lo spettacolo sul nascere.
“Se dovete risolvere le vostre questioni in modo incivile avete a disposizione qui fuori uno spazio enorme. Per favore uscite dal locale”.
L’invito fu accolto da entrambe la fazioni. Un attimo dopo i due schieramenti si fronteggiavano sul selciato di Piazza San Carlo.
(continua)

martedì 13 marzo 2012

Un esperimento

In questi giorni, come ho accennato, passo più tempo del dovuto guidando su e giù lungo l'autostrada Roma-Civitavecchia per fare da autista a un congiunto che purtroppo sta poco bene. Passo abbastanza tempo anche nelle sale di attesa di un noto policlinico, e la mente è presa da pensieri non certo piacevoli.
Proprio per evadere in qualche modo da questa routine imprevista, ho ripensato al post della "realtà" in cui io immagino di vivere nel 1908 e... ecco, diciamo che ci sto provando. Quasi di getto ho iniziato a scrivere un racconto vagamente steampunk ambientato a Torino nel 1910. Penso di pubblicarlo a puntate nei prossimi giorni anche perché non ho testa per scrivere altro.
Ci saranno sicuramente errori e incongruenze per mancanza di un editing adeguato ma, anche se può sembrare strano da capire, sono in una condizione mentale in cui ho bisogno di scrivere - con tutte le sensazioni positive che questa attività mi regala - senza preoccuparmi troppo dei dettagli. Scrivere a ruota libera per il puro gusto di scrivere e vivere temporaneamente le situazioni immaginate.
Ricordo una signora che, rimasta vedova, andava tutti i giorni a giocare a carte con le amiche. Quando una mia parente le fece notare che la gente mormorava "Ma guarda quella! Gli è appena morto il marito e va a far salotto con le amiche, che mancanza di riguardo!", la signora vedova le rispose: "A casa mia ogni singolo oggetto mi ricorda mio marito. Ogni cosa che guardo me lo fa tornare in mente. Se passo un'intera giornata a casa mia prendo una pistola e mi sparo un colpo in testa". All'epoca ero un bambino e le parole della signora mi suonavano oscure e incomprensibili. Quanto le capisco bene adesso...

sabato 10 marzo 2012

In fase di androidizzazione

Dopo anni di fedeltà a Windows e ai suoi prodotti, sono caduto in tentazione - maledette le promozioni nel reparto elettronica degli ipermercati - e ho acquistato un tablet android, per la precisione uno Spock M87V della i-INN, quindi neppure uno dei migliori.
Avrei potuto spendere di più, anzi ancora di più e virare su un iPad, invece ho scelto il parente povero e... già mi ha preso.
Per questo apparecchio vale quello che una volta Alex ha detto a proposito del suo illustre consimile dell'aristocratica famiglia Apple: non è un pc, però ci puoi consultare e modificare documenti word e excel; non è un cellulare ma ci puoi navigare su internet e comunicare con gli altri tramite tutte le opzioni del web; non è un lettore mp3, però ci puoi caricare files musicali e ascoltarli con le cuffiette; non è un televisore, però ci puoi guardare i film registrati o i canali che trasmettono su internet; non è un'ereader, ma con un buon software (tipo "kindle per android") puoi leggerci degli ebook; non è una DS o una PSP, però ci si possono installare parecchi giochini e passatempi vari; non è una macchina fotografica o una telecamera, ma in casi limite può scattare foto o registrare video.
Insomma, non è carne e non è neppure pesce, ma è un buon surrogato di tutto.
E io sono di bocca buona :-)

giovedì 8 marzo 2012

Un racconto in più

Era da un po' che non aggiungevo racconti nella sezione degli scritti di narrativa tradizionale.
Quello che ho inserito oggi, "Reinvenzione di un giorno" (lo trovate quasi in fondo alla pagina linkata qui sopra) è il primo di una trilogia che ho chiamato Gioco letterario poiché ognuno dei tre racconti mescola letteratura e vita reale. Una compenetrazione che può capire solo chi è appassionato di lettura e scrittura. In effetti il tema non è semplice, ma ho voluto provarci ugualmente. Si tratta di scritti non proprio recenti che ho sottoposto a numerosi editing nel corso degli anni poiché non ero mai soddisfatto del risultato finale. A dire il vero non lo sono ancora del tutto, ma ormai ho deciso di metterlo in gioco.
Il racconto è autoconclusivo, quindi può essere letto senza ritrovarsi in sospeso.
La trilogia completa è già disponibile su ilmiolibro (dove ha già ricevuto una recensione) e da poche ore anche su amazon.
Per chiunque ne avesse voglia, buona lettura :-)

EDIT : EBOOK IN REVISIONE - AL MOMENTO NON DISPONIBILE

lunedì 5 marzo 2012

Topolino per arrivare a Pirandello?

In questi giorni i miei genitori stanno ristrutturando la loro casa, e da scaffali sperduti sono saltati fuori colonne di fumetti.
Eh sì, perché anche se sono un uomo adulto e maturo con una sua famiglia, ancora conservo i vecchi albi in quella che un tempo fu la mia cameretta. Ho fatto visita ai miei nel week end e ho visto le pile di volumetti accumulati in un angolo: tanti numeri di Provolino, Braccio di Ferro, Geppo, Topolino, Charlie Brown, Andy Capp... E poi Martin Mystère, Dylan Dog, i manga di Kappa Magazine... (tutti quelli della mia generazione sono autorizzati a sospirare e ricordare l'infanzia e la prima adolescenza).
Nell'ultimo post sottolineavo i vuoti enormi nelle mie letture dei cosiddetti "classici", e per un attimo ho pensato che se non avessi letto così tanti fumetti forse avrei dedicato più spazio alla letteratura.
D'altro canto però certi libri non credo che possano essere letti a quattordici anni o addirittura meno. Come mi faceva notare Lucrezia in un commento, l'esperienza della vita è fondamentale per capire meglio il senso di certi ragionamenti della voce narrante di "Memorie dal sottosuolo" di Dostoevskij o quelli di Vito Moscarda in "Uno, nessuno e centomila".
E poi, inoltre, ho notato un'altra cosa che mi ha ispirato questo post, ovvero: tutti quelli che conosco che sono stati accaniti lettori di fumetti, nel corso degli anni sono diventati lettori di narrativa. Accanto ai pochissimi che hanno sempre letto romanzi e racconti sin da quando avevano undici anni, e a quelli che non hanno mai letto nulla (e continuano a non leggere nulla), e ci sono quelli come me che hanno iniziato con Topolino per poi arrivare a Pirandello. Non conosco nessuno che abbia iniziato coi fumetti e lì si è fermato o che poi ha smesso di leggere. Dai fumetti alla letteratura sembra che il passo sia automatico, sia pure con tempi più o meno lunghi e risultati assai diversi.
Sarà proprio così? Possibile che i fumetti da edicola, quelli tanto disprezzati da prof e intellettuali, riescano invece a formare un futuro lettore adulto? Meglio i fumetti della televisione o dei videogiochi?
Chissà...

venerdì 2 marzo 2012

Il punto della non-situazione

Quando posto un messaggio intitolato "il punto della situazione" o giù di lì, si vede che sono confuso.
In effetti si fa il punto della situazione quando tante attività si accumulano insieme e bisogna necessariamente mettere ordine. Nel mio caso non ho ancora raggiunto livelli di complicazione così elevati, tuttavia ogni tanto devo fare da autista a un mio congiunto per portarlo a un noto policlinico romano, e come potete immaginare non sono momenti piacevoli. Il tempo libero rimane, ma con qualche pensiero spiacevole in più per la testa... Forse è per questo che preferisco vivere nel 1908 in una torre d'avorio decorata in stile liberty.
Comunque, in mezzo a questi piccoli problemi, qualcosa sto scrivendo sebbene con poco costrutto. Anzi: per essere precisi sto traducendo ;-) altri racconti dello scrittore Hiroshi Miura. Evidentemente non posso farne a meno.
Sto anche editando un mio vecchio ebook di genere mainstream (o meglio: narrativa tradizionale, gli anglicismi vanno usati solo quando servono davvero).
Infine, ho in bozza un racconto vagamente steampunk (ecco, in questo caso il termine inglese è insostituibile) che forse potrei pubblicare a puntate sul blog. Almeno avrei un post a settimana già definito :-)
E poi naturalmente leggo. Più leggo e più mi accorgo di quanto poco ho letto. Sono troppi i libri e gli autori che ancora non compaiono nel mio mobile libreria o nel mio palmare. In questi giorni sto leggendo per la prima volta opere di Dostoevskij, e ho provato due sensazioni: comprensione profonda del perché certe opere diventano classici universali, e altrettanto profonda vergogna facendo un elenco rapido dei tantissimi classici che ancora non ho mai affrontato... Spero di colmare almeno in parte le mie gigantesche lacune.